mercoledì 22 giugno 2011

FRATEME, scritto e diretto da Benedetto Sicca

La favola nera e la catarsi contemporanea
di Cosimo Attico
Partiamo da un dettaglio senza importanza: quando sono arrivato a Torino per vedere Frateme di Bendetto Sicca, proposto all’interno del prestigioso “Festival delle colline torinesi” scopro che la città è in subbuglio da giorni. E quando entro al teatro Gobetti la sera di martedì 21 giugno e lo scopro semivuoto, scopro anche che il fervore non era per il prestigioso festival del teatro di ricerca ma per la parata annuale dei bersaglieri avvenuta qualche giorno prima. E quando poi a fine spettacolo gli attori, al grido di “dopo l’acqua e l’aria riprendiamoci la cultura”, leggono un comunicato solidarizzando con l’esperienza di occupazione che in questi giorni sta riguardando il Teatro Valle di Roma mi chiedo: ma questa rivoluzione per chi la si fa?
Ma abbandoniamo le domande e veniamo al mio ruolo di critico.
Il testo e la regia di Frateme sono di Benedetto Sicca, arrivato abbastanza rapidamente a proporsi alle importanti scene off nazionali dopo anni da attore di teatro e cinema. Frateme è uno spettacolo che ha apparentemente una scrittura classica da commedia all’italiana di tema familiare: tre fratelli napoletani (Primo, Seconda e Secondo Piscopo), tutti omosessuali “con diversi gradi di autocoscienza e diversi modi di relazionarsi con la società” (dal programma di sala), a cui ruotano attorno tre figure identificabili come gli oggetti del desiderio dei fratelli -lo psicologo di Primo, l’insegnante di inglese di Seconda, il collega di lavoro di Secondo, una madre iperpresente che evoca un padre sempre assente assumendosene e giustificandone l’esistenza.
Il primo atto (o meglio quadro, dal momento che non esistono stacchi evidenti tra un atto e l’altro) è strutturato con una drammaturgia programmaticamente simmetrica: vediamo tutti e tre o fratelli alle prese con i rispettivi giochi di seduzione, i tre fratelli nel rapporto con la madre e nei rapporti l’uno con l’altro. Nel secondo quadro, durante una cena che vede riuniti tutti i personaggi (che evoca la tradizionale scena a tavola di molte drammaturgie partenopee), la commedia diventa grottesca e tragica. Nel terzo la commedia nera si fa tragedia, le relazioni scoppiano, De Filippo diventa Fassbinder, la situazione realisticamente tratteggiata nei due atti precedenti si fa eccessiva, tra la favola noir e il thriller: intuiamo le cause antiche e le conseguenze apocalittiche della gabbietta familiare. Le belle luci di Marco Giusti nel terzo atto diventano livide, fino ad evocare attraverso l’uso di fari rossi un ipotetico incendio a fine spettacolo, suicidio/omicidio/soffocamento silenzioso/falò propiziatorio, pronto a ridurre in cenere quello che non si ha avuto il coraggio di affrontare. Sfondo alla vicenda è la Napoli della puzza di immondizia, la città che estromessa a forza pare essere invadente e presente fino a forare le mura casalinghe.
La trama, quasi prevedibile nell’almodovariano eccesso, non dice nulla di nuovo, e nel finale manca forse di originalità. C’è tutto: dal rapporto morboso madre-figlio, alla reticenza familiare, all’abuso, dall’omosessualità vissuta a quella negata, le morti in scena, il cibo, il sesso, le malattie mentali, l’intellettualismo giovanile, le citazioni di altri autori chiamati a farsi testimoni della legittimità del racconto. C’è fin troppo. Eppure questo troppo è gestito con delicatezza da una scrittura che arriva all’eccesso attraverso un percorso preciso e leggibile: le relazioni raccontate da Sicca sono spesso commoventi nella loro riconoscibilità, ogni rapporto è tratteggiato in modo dettagliato e intelligente dalla sapienza della scrittura di un autore indubbiamente consapevole delle possibilità della drammaturgia di raccontare attraverso la quotidianità qualcosa di assoluto, di staccarsi dalla convenzione stereotipata per raccontare relazioni riconoscibili. La scrittura diventa compiaciuta e talvolta irritante laddove pretende di farsi assoluta attraverso le scorciatoie dell’erudizione, dell’aforisma, della retorica.
Il linguaggio scelto da Sicca per il suo racconto è ben sostenuto- anzi impreziosito- da un gruppo di interpreti di rara coesione: convince il raffinato lavoro di Francesco Vitiello che arriva a mostrare la deriva patologica di Secondo (eccessiva e a tratti incredibile) attraverso un percorso chiaro e intelligente, quello di chi rimane ancorato ad un lutto (per i morti, per i vivi che abbandonano, per la parte rimossa di sé) che febbrilmente lo sposta dalla realtà. Anche l’interpretazione disperata e provocatoria di Emilio Vacca risulta efficace, fino ad essere in certi momenti commovente, come quella di Giorgio Sorrentino e della madre Paola Michelini, che porta in scena con ironia la connivenza di un materno che non vuole vedere il disastro che ha sotto gli occhi. Valentina Vacca racconta la sua Seconda con toni che talvolta sono parsi al sottoscritto più un compiacimento dell’attrice che una balda sfrontatezza del personaggio- pur riuscendo a consegnare al pubblico un ritratto interessante. A Camilla Zorzi e Luca Saccoia l’ingrato compito di misurarsi con una lingua più artificiale, un italiano medio spesso meno concreto della lingua dialettale (condanna da sempre della lingua italiana!). E se Camilla Zorzi riesce con dolcezza e precisione a rendere umanissima la sua Corinna, l’insegnante di inglese che non ha mai vissuto, Luca Saccoia rischia più volte di mancare l’appuntamento con la specificità di una relazione, che risulta spesso inverosimile.
Ci sarebbero molte cose da dire su questo spettacolo, i segni, gli elementi che Sicca sceglie di utilizzare sono molti e non sempre ben gestiti, ognuno dei quali meriterebbe un’analisi dettagliata: dal mimo (usato massicciamente nei primi due atti per poi scomparire che riesce a convincere e a non risultare un virtuosismo solo nel secondo atto), all’astrazione delle geometrie spaziali (nella scena di Tommaso Garavini e Flavia di Nardo ci sono sedie, un tavolo, e un letto di metallo che scorrono sui binari del palcoscenico, mentre i costumi realistici sono di Simone Valsecchi). Le luci di Marco Giusti sono uno dei segni forti dello spettacolo, efficaci e poetiche nel disegnare gli spazi.
Quello che veramente convince il sottoscritto è la scelta di occuparsi dell’emotività dello spettatore, quasi spingendola a misurarsi con le emozioni più antiche e popolari. Si piange e si ride, come lo si fa al cinema, quando si spera che il film non finisca per dare ancora per un po’ libero sfogo alle proprie emozioni, riconoscendo nei meccanismi presentati sulla scena qualcosa di universale e personale. È una scelta pop quella di Sicca, di spingere il pedale emotivo per smuovere anche gli irriducibili, i freddi o quelli che a teatro o si annoiano o non ci vanno. E in questo riesce. Nonostante molte cose siano in questo spettacolo imperfette, dalle scelte di regia (troppe e non sempre portate fino in fondo, in una bulimia semiotica in cui anche il critico non può che arrendersi), alla scrittura che nel terzo atto si fa compiaciuta, rimane encomiabile (per il sottoscritto, che ama il teatro di relazioni e lo svisceramento dei rapporti, che crede nella delicatezza dell’interpretazione e nell’ironia della scrittura) la scelta di attingere, in modo riveduto e corretto, a quel Melò che appartiene alla nostra tradizione ma necessita di un rinnovamento di codici.
La commedia napoletana, con le urla, il sangue versato e lo sfogo dei conflitti, è forse irrecuperabile per raccontare una contemporaneità di silenzio e di inconsapevolezze. Non si può nemmeno raccontare l’oggi parlando di poveri e ricchi come l’ha fatto tanta scrittura del Novecento, ma si può tentare di ridare un nome alle cose, definire i nuovi “noi” e i nuovi “loro”, senza escludere nessuno, senza fare battaglie politiche se non un politico, etico, necessario, ritorno all’uomo, fatto di testa, di carne e di emozione.
A questo punto, al momento della lettura del comunicato di solidarietà con i manifestanti del teatro Valle, viene da pensare che il teatro sia- possa essere ancora- uno strumento di catarsi popolare e che quella cultura denigrata e calpestata possa ancora essere un bene collettivo da salvare.
Pubblico scarso ma entusiasta. Tanti piangono, pochi commentano, molti applausi, nella speranza di vedere il lavoro nelle stagioni invernali.

Nessun commento:

Posta un commento